Nokturnal Mortum – “Goat Horns” (1997)

Artist: Nokturnal Mortum
Title: Goat Horns
Label: Oriana Music
Year: 1997
Genre: Symphonic/Folk Black Metal
Country: Ucraina

Tracklist:
1. “Black Moon Overture”
2. “Kuyaviya”
3. “Goat Horns”
4. “Unholy Orathania”
5. “Veles’ Scrolls”
6. “Kolyada”
7. “Eternal Circle”

Benché “Lunar Poetry” sia indiscutibilmente un demo tanto atipico, così particolare e così un caso limite nella sua trionfale natura, nella sua barbarica furia giovanile nonché nella sua malcelata qualità da essere spesso e con ogni probabilità esageratamente acclamato persino tra i migliori, o almeno tra i più affezionati quando non più rappresentativi parti artistici della band ucraina capitanata dallo Knjaz Varggoth -basti pensare al lavoro fatto dalla stessa band nel suo ultimo full-length, il “To Lunar Poetry” pubblicato proprio nell’anno della scrittura di questo articolo- il salto che intercorre e porta dal 1996 di quest’ultimo al 1997 del debutto ufficiale intitolato “Goat Horns”, tanto in una perfetta continuità d’intenti sul piano esplorativo quanto in una curiosa e fortunatissima frattura stilistica degna degli avanguardisti, è con ogni probabilità ancora più notevole e sorprendente di quanto potesse mai essere stato fatto in quella primissima incisione concreta (prima, se fatte quantomeno le dovute esclusioni dell’anticipatorio rehearsal “Black Clouds Over Slavonic Lands” che le regala metà degli scheletri compositivi e dell’ancora interlocutorio ed acerbo, benché a sprazzi brillante, nastro che ha preso il nome di “Twilightfall” quando ancora la band impiegava quello di Nocturnal Mortum, dopo le parentesi Death Metal dei Suppuration e quella ibrida dei Crystalline Darkness) come pure l’ultima nell’alveo delle dimostrazioni ufficiali: quella che fino ad oggi è nondimeno rimasta sovente accreditata come un primo full effettivo più che per la mera lunghezza e corposità, per via d’intensità, proprietà e peculiarità indiscutibili.

Il logo della band

Ma non soltanto il balzo da questo così iconico demo a “Goat Horns” è oltremodo ampio perché il debut del gruppo è, dal canto suo ed in maniera piuttosto innegabile, infinitamente superiore al nastro pubblicato su cassetta l’anno prima e poi, solo con il tempo e con l’apprezzamento generale, divenuto parte integrante e precedente ineludibile nel canone pubblicativo principale degli ucraini (anche -e non va dimenticato- per la ricezione frammentaria ed acronica nel resto del mondo dei lavori delle band dall’est Europa tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei ‘00); bensì perché il grado di unicità che li separa in favore del secondo è difficilmente refutabile. Nello stesso anno in cui vengono rilasciati anche i due EP minori nelle fogge di “Marble Moon” e “Return Of The Vampire Lord” (in seguito accorpati nelle compilazioni ufficiali che li vedranno racchiusi in un’unica uscita), a chiara dimostrazione di quanto infuocato fosse l’estro compositivo dei giovani di Kharkiv in quegli immaturi ma fruttuosi anni d’esordio, a differenza del trionfo quasi unicamente sinfonico e melodico, quasi-gotico di “Lunar Poetry”, il full-length del 1997 è quello che veramente anticipa, e anche con abbondanza, gran parte di tutti quei precisi ed inconfondibili elementi stilistici e di linguaggio che avrebbero nei successivi venticinque anni trovato una incomparabile fortuna e terreno fertilissimo nel catalogo del gruppo come nelle sue coordinate geografiche, stilizzando un delineato sottogenere dallo spiccato marchio slavonico.
“Goat Horns” è infatti e sicuramente una manifestazione degli intenti, seppur già peculiari, precedentemente ancora imperfetti e vaganti alla ricerca di sé di una band che avrebbe -proprio con questo primo tassello- intrapreso invece un’evoluzione poi senza più pari tra i colleghi, distanziandoli tutti con stacco. L’approccio ancora ridondantemente sinfonico del Black Metal del combo fino al 1996 si sposa qui alla perfezione con il prepotente folklore alla base delle musiche dei suoi completamente nuovi, sette squisiti brani, in cui le chitarre grezze, dal suono cavo, gretto, aspro e quasi smodatamente distorto sono assopite nel mix, talvolta cancellate a favore di atmosfere ancestrali e di algidi arrangiamenti qui maestosi e là popolareggianti, ma sempre già ricchi di occultismo, misticismo e melodie dal gusto tradizionale e zingaresco ricamate da scale di tastiere ed evocativi strumenti acustici che vengono per la prima volta suonati e campionati da Saturious.

La band

Quello che “Goat Horns” conserva infatti nei suoi brani è una natura che è sia rivelatoria della grandezza che verrà, sia un capitolo a sé stilisticamente irripetibile e genialmente irripetuto nella variopinta e straordinaria parure di gioielli marchiati Nokturnal Mortum: in un certo senso più smaccatamente Folk, incantato e tribale di ciò che è stato e di ciò che verrà nella successiva decade (si pensi al primo snodo di “Kuyaviya”, con quelle tastiere a pioggia come incantesimi tra l’oltretombale e il rapito verso i reami dell’irreale, a “Kolyada” o al finale in up-tempo di “Goat Horns”), seme definitissimo in questo senso di quel che il gruppo sarà nei momenti più splendenti di “NeChrist” e dei lavori successivi al 2000, pur definendo in altri e non minori frangenti le possibilità tra le più assassine ed efferate del medesimo disco nero o di quel “To The Gates Of Blasphemous Fire” che ai due sta in mezzo come un cuscinetto fatto di fuoco, sangue, alabarde e scudi scheggiati le cui crepe risplendono pericolose al brillare della luna.
La magia che un simile, strabiliante album di debutto sprigiona col vibrare di un culto misterico fin dalla sua enigmatica, tremendamente evocativa copertina è incontenibile; inequivocabile addirittura, nel momento in cui il primo atto “Black Moon Overture” va in scena aprendo in un trionfo di sinfonie un disco che nel 1997 è qualcosa di davvero inedito, seminale ed importantissimo sia per il panorama Black Metal nazionale o locale (quello slavo e dell’est Europa in sviluppo nel sottobosco frondato in contemporanea dai più grezzi “Carpathian Wolves”, “Sventevith”, “Night On The Bare Mountain”, “Imperium” e “Wicher”) sia per i successivi tentativi internazionali di mescolare Symphonic Black Metal e le ancora nuove suggestioni Folk o pagane esplorate negli ultimi tre anni ancora dai sintetizzatori e dalle tastiere di pochissimi. Sebbene sia infatti vero che la Norvegia di Hades, Helheim, Enslaved, Kampfar o anche solo dei Satyricon provveda a riportare un profilo già a quel punto quasi antesignano per la mescolanza d’ispirazione arcaica in materia musicale estrema, è innegabile quanto e come il modo trovato dai Nokturnal Mortum in “Goat Horns” sia estremamente indipendente, spiazzante e nuovo: l’anello di congiunzione concettualmente già vicinissimo a ciò che rappresenterà stilisticamente il Black Metal intriso di folklore a partire dal 1999 di “Midnattens Widunder”, che dai boschi e dalle caverne finlandesi rivoluzionerà definitivamente questo nuovo linguaggio a sua volta.
La maniera in cui i Nokturnal Mortum intuiscono con svariati anni di anticipo rispetto a qualunque futuro e raffinatissimo campione del genere (dai geograficamente più vicini Arkona ai Moonsorrow) ha dell’eccezionale per la mancanza di appigli coevi che potessero fornire un qualche spunto che ora, a distanza di venticinque anni, appare scontato – e che tuttavia nel luglio del 1997 era ancora inconcepibile. Gli Emperor ripresi come da tradizione slava in “Lunar Poetry” diventano finalmente una cosa ignota, irriconoscibile ed unica nell’inizio di “Veles’ Scrolls” (con tanto di nervature elettroniche nella sua seconda, irresistibile parte), nel groove mortifero di “Unholy Orathania” come nelle tentazioni gitane, stregate e poi epiche a non finire della meritatamente leggendaria title-track la quale è vero emblema di quella evoluzione, quella tendenza che -fatta parziale eccezione per la sola e successiva parentesi “To The Gates Of Blasphemous Fire”– sarebbe esplosa al varcare della band delle porte del nuovo millennio. I tempi rallentano nell’apertura e nell’evoluzione interna di una davvero profetica “Kolyada”, ma non si caricano soltanto di quella epicità gretta che avevano mostrato essere propria del genere i Bathory e la nobile discendenza scandinava, qui riempita di una invocatività splendida, rurale e rituale; si riempiono di tutto un misticismo rustico, di una stregoneria che dalla Polonia del 1995-96 diventa maledetta musica popolare abbracciata dal nero vestito di un incantatore eteno bagnato nel sangue, immerso nel sacramento infuocato in onore ed odore del solstizio. E le immagini trasmesse è come se lo fossero per converso nel tramite di un’orchestra – nell’intuizione, un’altra intuizione a sua volta: due tastieristi per quello che diventerà un unicum persino per la band relegato nella trilogia 1997-1999, ma che è un espediente ancora singolare ed inaudito in studio per pressoché qualunque altra band Black Metal. Saturious e Sataroth riempiono ogni buco del suono con magniloquenza, relegando le chitarre e le quattro corde distorte a zanzaroso e mediano tappeto di rumore bianco inasprente il carattere di musica classica prestata al maligno invocato con sensibilità pagana. In una frase: con “Goat Horns” sia il Symphonic Black Metal che il Folk/Black Metal assumono una nuova, magnifica forma di oscurità da cui non ci sarà più ritorno.

Poiché resta vero come sia proprio dal cruciale anno 1997 che, in un certo senso e qual modo, i Nokturnal Mortum diventano maestri di una se vogliamo trionfale esagerazione sinfonica che ha tuttavia in sé semi di una brillantezza che si sarebbe mostrata totalmente, com’è normale ed auspicabile che sia, nei dischi a venire: nessuno era tuttavia mai stato fino a quel momento così esplicito nelle sue intenzioni di fare del Black Metal e della tendenza orchestrale, e di quella folcloristica insita e non, una cosa sola; pochissimi altri autori, che si contano davvero sulle dita di una mano, saranno del resto capaci di comprendere il senso dell’operazione portata avanti dai Nokturnal Mortum da qui in avanti e di replicarne anche solo la qualità, o l’unicità; figurarsi di replicare questa stessa natura nascosta poi dalla stessa band per l’ascoltatore più attento nella violenza di “To The Gates Of Blasphemous Fire”, complicata poi splendidamente nel controverso e splendido compendio di umori “NeChrist” – insomma, quella sempre più artistica, sempre più progressiva e cangiante che li porterà a comporre “Weltanschauung”, “The Voice Of Steel” e “Verity”.
Ma già “Goat Horns” è, l’abbiamo visto, un disco di una originalità spiazzante, un album visionario pari se non ampiamente superiore in questo ed altri sensi ai progenitori slavi dell’anno precedente come “Wicher” e “Grom”; un’altra cosa a sé, è vero nonché doverosamente ammissibile in rispetto a questi ultimi, ma soprattutto e nonostante la sua grandezza solo e soltanto un accenno, un battito di ciglia nella parabola di una maestosità compositiva e di un estro che con ogni probabilità vengono battezzati senza sacri crismi qui: venticinque estati di fuoco e riti pagani fa, col favore di una luna nera che abbraccia tutto nel viola brillante e spettrale dei suoi sinistri bagliori.

Matteo “Theo” Damiani

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